Caprò – P. Verlengia

 

(…) un lavoro come “Caprò” di Vincenzo Mambella, per la regia e l’interpretazione di Edoardo Oliva, sovverte uno per uno tutti i punti di criticità osservati con sintetica pedanteria fin qui. Il testo riversa nella forma del monologo tutta una polifonia di voci e stimoli che non corrispondono tanto ai personaggi che pur popolano l’orizzonte della vicenda, quanto alla polisemia medesima del teatro, quella sua specifica tensione che richiede alla parola una sfida fisica, tale da reggere la presenza dell’attore e l’assenza di ogni altro ente. “Caprò” è tecnicamente un monologo, ma rifugge ogni secondo dalla semplificazione, dalla piattezza, dalla sensazione straniante (eppure così frequente) di una narrativa meramente traslata sulla scena. “Caprò” è vera drammaturgia e per suo tramite restituisce immediatamente la categoria del monologo ai crismi della composizione teatrale. “Caprò” è teatro, dimensione sociale oltre che artistica in cui anche una storia non si racconta, non si narra ma si evoca per scatti convulsi e salti, passando attraverso buchi oculatamente previsti, mimetizzati ad arte, lasciati come scarto da colmare al momento ad attore e spettatore, contrastando ad ogni virgola la linearità dettata dalla parola scritta. D’altronde, l’inchiostro del drammaturgo ha una consistenza diversa da quello di ogni altro tipo di scrittore. Aspira alla volubilità dell’aria più che alla tracciabilità della carta, compete con la parola sonora e viva, qualunque sia lo stile del testo (realistico o d’avanguardia, di tradizione o di ricerca). Perché ancor più veracemente compete con la vita, in un impasto fatto di atti e persone quanto di personificazioni e proiezioni fantasmatiche, che la rappresentazione rende con precisione ben maggiore rispetto alla realtà condivisa, condivisibile o certificabile, in virtù di una fede -laica quanto integrale- nella condizione umana.

La lingua di “Caprò” mastica con ardore tutta la sapidità e tutta la tortuosità imposta dal sermo quotidiano di un Abruzzo contadino, immortalato in evo pre-industriale sul tramonto dell’Ottocento. In questo scenario, è particolarmente apprezzabile l’uso virtuoso che vien fatto del dialetto, trattenuto dalla facile spettacolarizzazione o dalla ridicolizzazione alimentata pervicacemente da una pratica vernacolare che nel nostro territorio supera difficilmente il livello filo-drammatico. Vincenzo Mambella calibra un idioma che ricorre con equilibrio sensibile al dialetto puro, come strumento di connotazione teatrale mai fine a se stesso. Ne viene fuori una lingua dura, tutt’altro che incline al compiacimento letterario, che al contrario confligge con i suoi limiti forgiando il significato da una incandescenza rubata al magma tragico della vicenda. Ad onta di ciò, non mancano i momenti di comicità e lo spettacolo contiene una traccia di ilarità pressoché costante che va oltre il comico ed oltre l’apicalità delle battute; queste rivelano senso della scena e dei tempi, ma non esauriscono la vivacità di un testo che si mantiene godibile ed aperto al riso tramite i paradossi della logica ed i conflitti creati dal confronto tra le diverse visioni di mondo, le diverse culture antropiche, le diverse estrazioni sociali.

Su questo terreno giunge puntuale la prova d’attore di Edoardo Oliva, chiamato innanzi tutto a dare corpo e credibilità ad una formula come quella del monologo che -anche quando scritto con perizia ed ispirazione- dichiara allo spettatore tutta la convenzionalità della situazione teatrale: con chi è che parla un attore solo in scena e perché? Tecnicamente la risposta è semplice, nel senso che nel primo quadro l’interlocutore invisibile è rappresentato dalla madre del protagonista e nel secondo dalla figura per nulla oleografica di San Rocco, mentre è tutt’altro che semplice quello che l’attore compie in scena. Oliva in “Caprò” non si limita ad assecondare la ricca tavolozza di colorazioni e sfumature predisposte da un testo assolutamente intenso; riesce a riempire senza cali né scarti una partitura fatta di singhiozzi e respiri oltre che di pieghe e strepiti della carne. E questi non vengono estratti come numeri di bravura dal repertorio attorico, ma appartengono titolarmente ad un personaggio che sulla scena vive e che l’attore ha costruito e nutrito con lavoro metodico, indefesso, intransigente. Mentre ti inchioda al qui ed ora, la performance di Oliva dissemina la traccia delle ore compatte e dei giorni lunghi di prova, spesi a limare il senso ed i sensi, ad estrarre l’espressione dalle sue zone più profonde, dove il corpo si fonde con la sostanza di una verità che si fa comune solo mentre diviene comunicabile.

Ecco che si riscopre limpido il linguaggio precipuo dell’arte teatrale ed il suo ruolo specifico, tanto unico e vicino alla condizione umana quanto mutuabile, equivocabile, facile oggetto di adulterazioni inconsapevoli. Proprio come la verità.

Ed ecco che il processo attorico si lega a doppio filo con l’azione del personaggio, con la fatica sanguigna che esplode dalle braccia di Caprò, che doma il metallo a colpi energici di martello, ma non vince il peso della disperazione, della colpa, del passato sulla fragilità dell’oggi.

E fragile è anche la pretesa di raccontare, di spiegare l’intrico di motivazioni che si nasconde dietro i freddi fatti, quasi piccoli e banali rispetto alla voragine dell’anima, anche quando tragici. Così, per quanto si aspiri alla comprensione degli uomini, alla ricerca di riscatto, alle vette della vero, si resta legati alla polvere della terra per atto di zavorre inesauribili assimilate alla pelle. Di qui, ogni altrove non può che essere miraggio. O naufragio.

Per tutto questo insieme di ragioni, chi necessiti della rassicurazione delle categorie, potrà ben comprendere come “Caprò” non sia definibile o esauribile quale spettacolo di narrazione, ma unicamente come teatro tout court. Allo stesso modo si potrebbe erroneamente dedurre da questa descrizione l’idea di un “teatro d’attore”, del tutto limitante rispetto ad un lavoro in cui è ben ravvisabile il disegno compiuto di una regia, che permette tra l’altro l’intermittenza di momenti tratteggiati, caratterizzati da una cifra poetica di assoluto effetto.

 

Paolo Verlengia

Ricercatore teatrale, autore, performer.Per oltre dieci anni assistente alla cattedra di Storia del Teatro e dello Spettacolo di Pescara, è Dottore di Ricerca in Discipline dello Spettacolo, con all’attivo diversi saggi ed articoli incentrati su temi drammaturgici e registici.

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