Caprò – Porcheddu

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suoni e visioni Andrea Porcheddu – 22 novembre 2016

Caprò: un viaggio nella memoria e nella terra d’Abruzzo

Arrivo a Pescara su invito del vivacissimo FLAFestival: manifestazione, giunta alla quattordicesima edizione, dedicata alle scritture e alle letterature dell’Adriatico (e non solo), ricco di appuntamenti e affollato di pubblico, diretto da Vincenzo D’Aquino con l’intelligente codirezione artistica di Luca Sofri. Organizzato in modo puntiglioso, con grande professionalità e entusiasmo da parte di tutti (stagisti in testa) il Festival ha animato Pescara riempendola di idee e di parole vive.

Così, tra un Renzi (contestato) in apertura e un Carofiglio, tra una Nadia Terranova e un Goffredo Fofi, tra Gipi e Marco Tardelli, tra un poetry slam e un concerto – ma era davvero fitto il cartellone, impossibile citare tutto e tutti –  c’è stato comunque modo di parlare di critica teatrale e cinematografica (con l’ottimo Fabio Ferzetti del Messaggero) e di vedere uno spettacolo interessante.

Sto parlando di Caprò, un piccolo denso oggetto della memoria, un racconto vibrante e dolente che il bravo Edoardo Oliva ha presentato al Museo delle Genti d’Abruzzo. Curioso vedere questo lavoro in uno spazio museale: curioso perché lo spettacolo, per tema e allestimento, si incastonava paradossalmente in modo perfetto in una prospettiva di ricerca – antropologica, culturale, storico-sociale – nelle dinamiche espositive del museo pescarese. Non per metterlo in una teca, per carità, quanto semmai per fare un focus, illuminare un dettaglio che dalla micro storia potesse portare alla macro storia e addirittura all’oggi.

Dunque in un cantone del Museo, in basso, tra una vecchia valigia e una sedia di paglia sfondata, con una candela a far da pallida illuminazione, Oliva interpreta e racconta una storia semplice, immediata, popolare appunto che affonda nel passato abruzzese.

È una storia contadina, impastata di terra, di fatica. Sul fondo della stanza, un’incudine e un martello: che non sono, però, segni o simboli di una politica ormai persa, quanto figurazione concreta, tangibile, sonora, del “materia di cui son fatti i sogni”. Qua, nell’Abruzzo fine Ottocento evocato da Oliva, c’è ben poco da sognare. E la vicenda, infatti, racconta di un sogno che si fa incubo.

A parlare è Caprò, un “caprone”, un bestione (o forse il capro, elemento tragico per eccellenza), ossia un uomo squadrato dalla fatica. Uno che sa battere il ferro, che sa coltivare la terra.

Lui racconta a una madre che non c’è la storia, e parla del “principino”, l’altro fratello: che invece voleva sognare, voleva studiare, o andare in America.

L’orizzonte del possibile gli si schiude grazie a un maestro generoso, che si presta a far lezione, e alla di lui moglie: donna gentile e affascinante, che sarà l’elemento scatenante la tragedia dei due poveri “caino e abele”. L’amore non è dato, in quelle terre, non è possibile nella miseria: c’è solo da star con la testa bassa sulla terra. Tutto il resto è hybris, avrebbero detto i greci.

Così il finale si muta in doppia tragedia che nulla e nessuno salva. Sarà Caprò a partire per il nuovo mondo, a espirare il suicidio per amore del fratello. Ma, ulteriore epilogo, la nave su cui viaggia si inabisserà.

È un frammento di storia vera che si inserisce nella narrazione. Oliva, infatti, richiama la tragedia del bastimento inglese dal nome significativo: Utopia, naufragato a largo di Gibilterra nel marzo del 1891. A bordo, tra i 600 morti della terza classe, anche 14 abruzzesi del borgo di Fraine, vicino Chieti. Ma per questo Caprò la tragedia era già avvenuta.

Edoardo Oliva, una bella faccia da cinema e mani grandi, ha passione da vendere: spalle solide di tanti anni di teatro, torna a fare i conti con le proprie origini, con la propria terra. Lo spettacolo si scarta dalle maniere del “teatro di narrazione”, ha momenti commoventi, di rara e intensa semplicità. La drammaturgia, di Vincenzo Mambella, gioca bene con flashback e falle che apre intenzionalmente nel filo della memoria.

Al di là del ricordo di quel naufragio – che sì, c’è, ma uno spunto drammaturgico che apre il racconto a ritroso – quel che preme qui è ritrovare il legame aspro, violento, con l’origine contadina del nostro paese. E far risuonare una lingua, arcaica e cupa, che è l’abruzzese: più di un dialetto, certo, vero e proprio linguaggio (che a tratti Oliva stempera per favorire la comprensione di tutti) che è duro quanto la terra da cui sembra scaturire.

Con pochi elementi, dunque, Edoardo Oliva intesse un affresco, un racconto corale e popolare che indirettamente e si apre – ben oltre ai tre protagonisti della tragedia – a una riflessione di amara attualità. La terra trema in questo angolo di Italia, seminando morte, distruzione, disperazione tra tanti, troppi innocenti ma colpendo anche per l’ingordigia e la superficialità di quanti hanno costruito case, edifici, quartieri interi senza rispettare i dovuti criteri antisismici. Caprò ha il garbato pudore di non parlare di terremoto, di non “attualizzare” banalmente questa storia contadina: eppure ci sembra di intravedere, di riconoscere nello sguardo sperso di quell’uomo antico, costretto a lasciare il suo paese, la stupefatta disperazione di quanti, oggi, sono obbligati ancora nei container o a vivere in un qualche altrove sempre troppo lontano.

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